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#MaiPartiti - 23 luglio 2025
Amar e Mahmood – da Gaza a Firenze – 09062025
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FIRENZE – Amar e Mahmood sono due uomini, due padri. Due persone comuni, la cui vita è stata stravolta dalla guerra di Gaza, come quella di altre centinaia di migliaia di famiglie. Negli ultimi due anni vissuto i bombardamenti, l’invasione militare, la deportazione forzata, la fuga, la vita nelle tende, la lotta per il cibo, la fame, la sete, le malattie, la sofferenza per la perdita dei propri cari.
Eppure, sono felici e si dicono fortunati. Perché hanno avuto la possibilità di mandare i loro figli gravemente feriti o malati in Italia per essere curati nel nostro paese.
Amar e Mahmood sono i padri di due dei tre bambini arrivati ad inizio 2024 dalla Striscia di Gaza all’ospedale pediatrico Meyer, nel quadro di un progetto di assistenza sanitaria umanitaria tra Italia e Palestina.
Oggi, a quasi un anno e mezzo di distanza, sono riusciti a portare le loro mogli e i loro figli in Italia e riunire qui la loro famiglia. Sono infatti parte del gruppo di 22 gazawi arrivati a metà maggio a Firenze ed ospitati dall’Opera Madonnina del Grappa.
Mentre Amar e Mahnmood parlano, la voce è bassa, pacata. Ti guardano in faccia ma poi volgono subito lo sguardo in basso. Oppure fissano un punto lontano, altrove nel tempo e nello spazio. C’è come un velo, ben percepibile, davanti ai loro occhi. Talvolta un sorriso si accenna sul volto, ma viene subito smorzato, trattenuto.
Le loro storie raccontate ai microfoni di Novaradio durante una loro visita alla sede dell’Arci di Firenze, assieme al responsabile della Madonnina del Grappa Don Vincenzo Russo sono fatte di sofferenza tenacia resistenza e speranza.
Amar ha 42 anni, è uno che ha studiato. E’ laureato, e prima della guerra faceva insegnante di economia aziendale all’università. Quando i carri armati israeliani sono arrivati nel suo villaggio, a fine 2023, è scappato con la moglie e i 5 figli, rifugiandosi in un luogo che credevano sicuro, l’ospedale di Kamal el Adwan, nel nord della striscia. Il 21 dicembre 2023 l’esercito israeliano in un raid aereo non preannunciato, bombarda l’ospedale. Amar e suo figlio di 12 anni (che chiameremo I.) rimangono entrambi gravemente feriti.
“All’arrivo dei soldati israeliani io con mia moglie e i miei figli siamo subito scappati. Ci hanno detto di rifugiarci in ospedale, perché là saremo stati più sicuro. Eravamo in uno dei corridoi dell’ospedale al Awdan quando un missile l’ha colpito. C’era polvere ovunque, non vedevo più dove era lamia famiglia. Poi mi sono accorto che mi figlio era rimasto ferito: aveva schegge e una ferite sulla testa. Anche io sono rimasto ferito alla mani. Ho provato a tamponare le ferite, ma i medici mi hanno detto che loro lì non potevano fare nulla.
Amar e il figlio vengono trasferiti in un altro ospedale della Striscia, il Gaza European Hiospital di Khan Yunis. Vengono entrambi operati ma gli interventi no vano bene.
“Mio figlio è stato operato alla testa ma l’operazione non è riuscita ed è andato in coma. Anche io sono stato operato alla mano, mi hanno amputato 4 dita della mano destra, trapiantando alcuni lembi di pelle dalla gamba. Senza anestesia perché ho dei problemi al cuore, e sono svenuto. Dopo tre giorni di coma, mio figlio si è svegliato ma non stava affatto bene: non riusciva a camminare, a stare in equilibrio, sveniva continuamente. Allora i medici l’hanno messo in ambulanza e l’hanno inviato verso il confine, al valico di Rafah, dove i soldati israeliani, data la gravità della situazione, l’hanno fatto passare. In Egitto è stato trasferito in un ospedale militar; da lì, nel gennaio 2024, grazie ad un accordo tra Autorità Nazionale Palestinese e Italia che permette che ogni anno 100 bambini palestinesi possano venire curati in Italia, è stato scelto per andare nel vostro paese assieme alla mamma. I medici hanno detto che, a causa dell’emorragia cerebrale, non poteva assolutamente prendere l’aereo, e così è stato imbarcato su una nave per l’Italia. Appena arrivato è stato mandato al Meyer dove è stato subito operato alla testa.
Da febbraio 2024 al tuo arrivo in Italia con gli altri 4 figli è passato un anno e 4 mesi. Come avete vissuto?
E’ stato difficile. Io con gli altri figli, che hanno da 7 a 16 anni, siamo stati nelle tende, ma non avevamo acqua, era difficile mangiare, non si trovava quasi cibo. Quando arrivano gli aiuti, siccome c’è tanta fame, c’è chi prende di più e chi non prende nulla. Non c’è davvero nulla. Se arriva qualche aiuto mangiavamo, sennò no. Con i bombardamenti, alcuni giorni erano tranquilli, ma a volte c’era da aver paura. Noi ci muovevamo a seconda degli ordini di evacuazione dell’ IDF, ci siamo spostati più volte pr sopravvivere: non c’è acqua, non c’è niente, anche l’aria è inquinata.
E poi come è arrivata la notizia?
E stato periodo molto difficile, non ci siamo sentiti per molti mesi. Per poter parlare con la mia moglie per avere notizie del figlio facevamo 3 ore a piedi per raggiungere uno dei pochi posti un cui c’era internet: qualche messaggio e foto, perché la linea era molto debole. Io mi sentivo in colpa perché c’ero io con mio figlio quando è rimasto ferito, ero io che dovevo proteggerlo.
Ad un certo punto ho ricevuto una chiamata in cui mi dicevano che potevamo raggiungerlo in Italia. Non ci volevo credere: continuavo a dire: “Ma davvero? Davvero?” E dall’altro capo mi rispondevano: “Sì, ti stiamo chiamando dall’ambasciata!”. Dopo quella chiamata, non ho dormito per 3 notti, non riuscivo a chiudere occhio. La felicità più grande della vita è stata poter riabbracciare mio figlio, ma anche che le mie bambine potessero riabbracciare la mamma.
Ora come sta tuo figlio?
I dottori sono stati molto bravi, ora mio figlio sta bene. grazie a Dio. L’operazione è andata bene, ma dovrà seguire un lungo follow up. Ma ha ricominciato a camminare, e anche ad andare a scuola. Per sole due ore al giorno però: i medici hanno paura che si affatichi o che possa farsi male. Ma a lui piace andare a scuola e vedere i bambini della sua età. Così dopo molte richieste, i dottori ora hanno acconsentito che rimanga a scuola qualche ora in più.
Anche io dovrò operarmi di nuovo alla mano perché l’amputazione non è stata fatta bene. In questi giorni devo andare a Careggi per le prime visite.
Noi dobbiamo ringraziare l’Italia, Firenze, i dottori la Madonnina del Grappa che ci ospita. Mi ha dato la speranza di poter salvare la vita di mio figlio. C’è un detto in Palestina che recita così: “I bmabini nascono in tutti gli ospedali, ma l’umanità non nasce dappertutto”. Ecco , io qua ho trovato tanta umanità, fatta con le azioni, non con le parole.
Anche Mahmood, 37 anni, viveva a Gaza con la famiglia e lavorava in Israele prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Suo figlio di 8 anni – chiameremo anche lui semplicemente I. – ha una rara malattia, la tyrosinemia. Si tratta di una patologia congenita che, a causa dell’assenza di una particolare enzima rende impossibile il metabolismo di un amminoacido, la tirosina. Il che conduce ad una gravissima insufficienza epatica, dall’esito generalmente letale se non curata con farmaci specifici.
“Mio figlio ha una gravissima malattia al fegato. Nel 2023, prima dello scoppio della guerra, è morta un’altra nostra figlia. Quindi, quando ci siamo resi conto che anche nostro figlio aveva la stessa malattia e stava peggiorando – non camminava, non non mangiava nulla – l’abbiamo portato in un centro medico a Gaza dove ci hanno fatto un certificato speciale. Grazie a quello mio figlio è stato portato in Egitto assieme alla zia, cui è stato affiato, ma anche lì non avevano cure adeguate. Dicevano che la cure c’è solo in Europa. Un giorno è stato visitato da un medico italiano che l’ha fatto trasferire in un ospedale italiano in Egitto. Dopo qualche mese, a febbraio 2024, finalmente è stato trasferito in Italia, e per fortuna da voi in poco tempo è stata trovata una cura e anche una dieta adatta, dato che non può mangiare nulla che contenga proteine.
Nel frattempo però scoppia la guerra, e Mahmood, sempre a Gaza con il resto della famiglia, è costretto a scappare dal suo villaggio, nel centro della Striscia.
“Ci trovavamo a Maghazi quando sono arrivati i soldati israeliani: allora siamo siamo scappati a Dayr al-Balah,. io, l’altra nostra figlia che allora aveva un anno, e mia moglie, che era incinta di due gemelli. E’ stato duro, ma nonostante la guerra io ero contento, perché mio figlio era in Italia a curarsi. Dopo tre mesi siamo tornati al nostro villaggio, ma non c’era più niente. Gli israeliani avevano distrutto tutto.
Poi sono nati i gemelli, che hanno vissuto i loro primi mesi nello sporco, tra gli animali che giravano intorno, gli insetti. Non potevamo vivere in tenda, così ogni tanto si spostavano ora da una mia sorella, ora da un parente, ora da un altro, da una città all’altra. Non c’era nulla da mangiare né da bere, nemmeno i latte per i piccoli. Ho avuto tanta paura che potessero morire di fame. Spesso non mangiavamo noi per dare da mangiare a loro.
Così avete passato oltre un anno. Com’è che sei stato avvertito che potevate andare in Italia?
Un giorno mi hanno chiamato da un numero israeliano: io avevo paura di rispondere, perché ogni tanto gli israeliani ci chiamano per avvertire che stanno per bombardare, dicendoci di andare via. Alla fine mi sono fatto coraggio e ho risposto ed è stata una bella notizia. Non sapevano quando, ma mi danno detto che c’era la possibilità di andare in Italia. il tempo passava e un ogni giorno era come fosse un anno. Dopo due giorni è arrivata la seconda chiamata che di diceva che saremmo potuti partire. Da Dayr al Balah siamo partiti per il valico di Kerem Shalom e abbiamo attraversato Israele per andare in Giordania: ci abbiamo messo 8 ore per percorrere 50 chilometri, ogni 5 minuti c’era un check point degli israeliani in cui ricontrollavano tutti i documenti la paura più grande è che ci fermassero. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo siamo usciti da Israele, e lì c’erano i volontari italiani che ci hanno accolto con acqua e frutta.
E adesso qui come vi trovate?
Dobbiamo ringraziare l’Italia, il consolato italiano in Egitto, le prime cure che hanno fornito a mio figlio in Egitto e alla possibilità di essere curato qua, la Madonnina del Grappa, i volontari che ci aiutano e che giocano con i bambini. Quando siamo arrivati a Firenze era tanto che non mangiavamo, e qua c’’era tanta roba. Abbiamo mangiato così tanto che ci siamo ingolfati, e ora facciamo fatica a mangiare.
Tuo figlio ora come sta?
Bene, ora sta bene. Ha una casa, ha la sua mamma. Ha i soldi per comprare il cibo che gli serve, che è quasi solo roba di farmacia. Mangia, perché qui avete tanta frutta e verdura.
E voi?
Qui stiamo bene. Mi piacerebbe poter chiedere asilo per me e i miei figli: la bambina ha 3 anni, i gemelli un anno e mezzo. Vorrei anche tornare a Gaza, ovviamente, ho tanti parenti là. Ma a Gaza non c’è futuro: è tutto distrutto, no c’è più nulla. Prima di 50 anni non sarà pronta per poterci vivere. Spero di rimanere qua, per dare un futuro ai nostri figli.
E all’Italia, all’Europa cosa chiedete di fare per Gaza? Cosa pensano i Gazawi della comunità internazionale?
Ognuno a Gaza ci sono cose a cui pensare, no c’è tempo per pensare al resto. Qualche volta quando c’era la corrente ascoltavamo la radio, e sentivamo delle manifestazioni pro Palestina, e anche di una nave carica di aiuti che era partita dall’Italia (la Freedom Flotilla, ndr). Però Israele e gli USA, si sa, sino stati potenti ed è difficile poterli fermare. Le manifestazioni di protesta? Non cambiano nulla nel fermare la guerra, ma a noi danno tanta speranza. Sapere che non siamo abbandonati, che c’è gente che si preoccupa dei massacri, ci dà tanta forza e coraggio.
Scritto da: Redazione Novaradio
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Ogni puntata parte da una domanda, che possa aprire alle discussioni, per riflettere su se stessi e raccontarsi
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