La app “Immuni”, il suo utilizzo e le problematiche che solleva sul rispetto della privacy vanno inseriti in un quadro complessivo di sistema di monitoraggio sanitario di cui è una parte: le sue caratteristiche “tecniche” del software e del suo funzionamento, le modalità di conservazione e trattamento dei dati sensibili e le finalità sono essenziali per capire quali potrebbero essere si risvolti inaspettati
Ne è convinto l’avvocato Giuseppe Serafini, cassazionista ed esperto di diritto alla privacy e nuove tecnologie, che avverte sui rischi ma anche rassicura: “Finora il garante della privacy si è espresso in modo positivo ed è in corso la valutazione di impatto: l’iter è rispettato, ed è una prima garanzia”.
Riguardo la discussione che si è da subito aperta sulla tracciabilità, l’identificazione degli utenti e la “centralizzaizone” o meno dei dati, il governo nei giorni scorsi ha assicurato che l’adesione alla app sarà volontaria, che gli utenti saranno “anonimi” e non geolocalizabili, che il database non potrà essere usato per altri fini, e che i dati saranno eliminati al massimo il 31 dicembre del 2020.
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“L’uso del bluetooth – segnala l’avvocato – è garanzia di minor invasività ma è anche più violabile e aggirabile. Riguardo al deposito in un server centrale dei dati degli utenti che risultassero positivi – aggiunge – non per forza è considerabile un male, perché potrebbe rivelarsi più utile per la salute pubblica e per difendere i dati”. “Rimangono comunque ne dei temi aperti – fa notare – come ad esempio la possibilità di utilizzo della segnalazione della positività e dei contatti per altri fini: se un soggetto positivo o un suo contatto dovessero risultare aver violato disposizioni di legge (come la quarantena obbligatoria o il divieto di spostamento) si potrebbero aprire risvolti di carattere civile o penale. Questioni che vanno chiarite, di cui discutere e da precisare bene dal punto di vista normativo”.